SYRIA-CRISIS/GORAN TOMASEVIC/REUTERS

SYRIA-CRISIS/GORAN TOMASEVIC/REUTERS di a.anis, su Flickr

Se vivessimo in un mondo perfetto non ci sarebbero guerre, i governanti ricercherebbero il bene dei propri cittadini e vivremmo tutti in pace ed armonia.
Naturalmente si tratta di una pura utopia e mi accontenterei di abitare in un pianeta nel quale gli strumenti di governance globale funzionano e qualora un qualsiasi attore della scena politica internazionale (quindo non necessariamente un’entità statuale) dovesse macchiarsi di un qualsivoglia crimine scattano adeguate misure punitive, opportunamente graduate (dalle sanzioni economiche e finanziarie all’intervento militare), da parte del resto della comunità internazionale.
Quest’ultima infatti, sempre in linea di principio, non dovrebbe sentirsi autorizzata ad intervenire solo se direttamente minacciata; la semplice violazione di quei principi nei quali tutti dovrebbero riconoscere dovrebbe far scaturire “naturalmente” l’esigenza di riaffermarli con vigore.
Purtroppo pure questa è una pia illusione: le relazioni internazionali continuano ad essere condotte sulla base di calcoli ed interessi particolari ed, in generale, del proprio personale tornaconto.
Mi immagino dunque il dilemma nel quale si dibatte in queste ore il presidente statunitense Barack Obama, combattuto tra la volontà di lanciare un segnale “umanitario” (gli Stati Uniti, in quanto impero del Bene, devono compiere il loro manifest destiny e salvare il mondo) e meschine considerazioni di realpolitik (il cattivo Assad non è poi tanto peggio dei fondamentalisti che lo vogliono abbattere e forse non sarebbe male lasciarli combattere a dissanguarsi a vicenda).
Ci si ritrova insomma in uno di quei casi nei quali qualsiasi cosa si faccia si sbaglia: è impossibile restare inermi di fronte all’utilizzo di armi chimiche (e questo indipendentemente dal fatto che i responsabili siano stati i lealisti oppure i ribelli!) così come è evidente che il rischio è di far collassare l’intera impalcatura medio-orientale precipitandolo in un conflitto generalizzato.
La sensazione, dando credito alle indiscrezioni fatte trapelare dalle solite “fonti riservate” ben informate, è che sia stato raggiunto un accordo sotterraneo per far sì che tutti salvino la faccia: gli Stati Uniti lanciano un attacco simbolico (giusto 48 – 72 ore tenendo uomini, navi ed aerei a debita distanza dal territorio siriano) giusto per far vedere che sono ancora i gendarmi del mondo. Il compitino viene svolto assieme ad alcuni alleati (UK, Francia e Turchia) che riaffermano il loro status rispettivamente di potenze globali (Londra e Parigi) e regionale (Ankara). Da parte loro Russia ed Iran ottengono che gli obiettivi degli strike non colpiscano obiettivi in grado di cambiare realmente l’inerzia sul campo, favorevole ad Assad, limitandosi pertanto alle proteste di rito (l’Iran ha sibillinamente affermato che non ci saranno reazioni contro Israele se l’attacco non sarà diretto ad abbattere il regime; da parte sua le autorità di Tel Aviv si sono affrettate a specificare che non hanno parte nel conflitto né intendono averne). Per quanto riguarda infine Assad egli ne esce come colui che tiene testa al Grande Satana statunitense oltre ad avere ulteriori argomenti da dare in pasto ai suoi sostenitori a riprova del ritornello più volte ripetuto in questi anni che la rivolta è condotta da e per conto di potenze straniere.
Naturalmente la mia potrebbe restare una semplice elucubrazione “da blog“; non ci resta che attendere l’evolversi della situazione nei prossimi due – tre giorni (vedremo se le solite fonti saranno precise almeno sulla data d’inizio delle operazioni!), consapevoli però sin da ora che per la derelitta ONU ma soprattutto per gli Stati Uniti e per la vanesia UE si è trattata dell’ennesima perdita di prestigio e di autorevolezza.
Aver lasciato incancrenire la questione siriana per oltre due anni e poi intervenire solo per lavarsi la coscienza (o peggio ancora per salvarsi la faccia) non è il massimo tanto più che, militarmente parlando, l’unica soluzione adeguata (detta fuori da ogni ipocrisia) sarebbe un massiccio intervento boots on the ground per dirimere la questione una volta per tutte, riscrivendo la geografia del Medio Oriente (e probabilmente di parte del Nord Africa) e regolando una volta per tutte i conti con l’Iran.
Si tratterebbe di un impegno militare, si capisce, gravoso e per il quale sarebbero da mettere in conto numerose perdite così come anni di instabilità regionale con la necessaria opera di stabilizzazione.
Probabilmente l’unico modo per dare un nuovo e duraturo assetto al MO e far intravedere una prospettiva alla regione che non sia eterna instabilità e lotte interreligiose; sicuramente un compito per il quale l’Occidente non ha più adeguate risorse economiche, militari e morali.
Se saranno altri a farsene carico, prepariamoci ad un Medio Oriente diverso dai nostri desiderata.