Iraq_Tribes_Map

Iraq Tribes Map di Safety Neal, su Flickr

La lotta tra fazioni ribelli che si sta verificando in Siria ed in Iraq, con l’ascesa operativa e soprattutto mediatica dell’ISIS (Islamic State in Iraq and Syria), merita un approfondimento, tanto più che le notizie in circolazione sono confuse e talvolta contraddittorie. In effetti va preliminarmente riconosciuto che la probabile presenza di fazioni doppio – triplogiochiste rende difficile un’analisi completamente attendibile di quello che sta avvenendo sul campo.
I dati di fatto dai quali partire sono sostanzialmente due: l’ISIS (organizzazione il cui fine, come ben chiarisce il nome, è la creazione di uno stato islamico basato su una rigida applicazione della legge islamica sui territori degli attuali Siria ed Iraq) ha avviato in Siria una sistematica serie di attacchi nei confronti degli altri gruppi in lotta contro il regime di Assad (con il fine apparente di presentarsi come principale forza di opposizione), scatenando la reazione violenta (non poteva essere diversamente, dato il contesto) delle altre milizie; pressoché contemporaneamente una simile strategia offensiva è stata applicata in Iraq contro il governo “sciita” (ed in quanto tale accusato di essere filo-iraniano) del premier al Maliki, arrivando a far sventolare “la bandiera nera di al Qaeda” su Falluja (questa l’immagine prevalentemente passata sui media mainstream occidentali), città simbolo della resistenza irakena per le due aspre battaglie ingaggiate contro le truppe statunitensi (e della coalizione) nel 2004.
Fin qui i fatti. Dopo ci sono le voci e le “confidenze” le quali, si badi, nei torbidi delle guerre civili potrebbero pure contenere un fondo di verità. Quelle milizie impegnate in Siria che hanno deciso di non piegarsi alla volontà di sopraffazione dell’ISIS (altre infatti stanno ricercando una mediazione nel tentativo di salvare l’unità del fronte anti Assad), hanno denunciato pubblicamente le violenze perpetrate ai danni della popolazione civile accusando l’ISIS stessa di essere, in realtà, manovrata da Assad il quale, dal canto suo, ha così buon gioco a dimostrare come in Siria siano operativi “terroristi stranieri” e come siano costoro i (principali) responsabili degli eccidi.
Questa lettura del teatro siriano, e del presunto ruolo pro Assad (un alauita, ergo vicino alle posizioni religiose sciite) in esso svolto dall’ISIS, purtroppo non collima con quello che avviene nel vicino Iraq dove l’ISIS, al contrario, combatte per abbattere il governo dello sciita al Maliki.
Vi è, evidentemente, una contraddizione di fondo. Un particolare però può fornire una utile chiave di lettura di quanto sta avvenendo: al fine di non avallare (ancor più di quanto già si sappia) la teoria della lotta tra sciiti e sunniti, al Maliki non sta schierando contro le milizie dell’ISIS l’esercito regolare bensì formazioni locali che hanno deciso di collaborare con il governo di Baghdad. Poiché gli appartenenti a tali formazioni provengono dalle tribù locali e poiché Falluja rappresenta uno dei tre vertici di quel famoso “triangolo sunnita” (assieme a Bakuba e Ramadi) che tanto filo da torcere diede alle truppe statunitensi, vien da pensare che oggi come allora siamo di fronte ad una manifestazione di nazionalismo “genuino” di fronte ad elementi esterni che, per quanto della medesima confessione, hanno obiettivi diversi da quello che potremmo definire il “vero bene” dell’Iraq. In questo senso la prova ex contro potrebbe essere rappresentata proprio dal fatto che le tribù sunnite del triangolo, ovvero quelle più legate al partito socialisteggiante Ba’th del defunto Saddam Hussein e pertanto più intrise della nozione Occidentale di Stato, abbiano messo da parte le differenze confessionali per combattere a fianco del governo centrale “sciita”.
Ovviamente si tratta di una tesi accademica “da tavolino” che per essere pienamente confermata necessiterebbe di una verifica “sul campo”, tanto più che solo ipotesi si possono formulare sulle stesse “potenze straniere” che starebbero dietro all’ISIS così come su analoghe formazioni spuntate negli ultimi tempi. I rumor più accreditati guardano alle petromonarchie del Golfo e, carta geografica alla mano, il sospetto sembra più che fondato: qualora Siria ed Iraq dovessero finire nell’orbita sunnita, gli stati della penisola arabica otterrebbero il duplice vantaggio di “spezzare” da un lato la mezzaluna sciita che dall’Iran si protende (attraverso l’Iraq, la Siria ed il Libano) fino al Mediterraneo e dall’altro di mettere al sicuro le pipeline dirette verso l’Europa occidentale, laddove al contrario un’affermazione delle forze sciite frammenterebbe il fronte sunnita con la penisola arabica da una parte, l’Africa settentrionale dall’altra e Turchia e Caucaso da un’altra ancora.
Riprova del fatto che non si tratti di un’ipotesi campata per aria l’atteggiamento della Russia (protettrice, oltre che di Damasco, anche di Teheran): la strenua difesa del regime di Assad così come il pugno di ferro tenuto nei confronti degli estremismi / indipendentismi caucasici (che guarda caso altre indiscrezioni sostengono essere foraggiati dalle solite monarchie del Golfo), ovvero proprio di quei paesi chiave per il passaggio delle condotte di gas e petrolio, inducono a ritenere che la complessa partita geo-energetica Russia VS Paesi del Golfo faccia da sfondo alle complesse vicende di politica estera mediorientale degli ultimi anni.