Crisi coreana: perché la politica di basso profilo di Washington è pericolosa

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Korean Peninsula

MIM-104 Patriot(PAC-2 & PAC-3) di Ken H / @chippyho, su Flickr

Torno sulle vicende della penisola coreana ma questa volta, diversamente dal post di qualche giorno fa, con un taglio decisamente più “politico”.
In particolare voglio soffermarmi sulle pericolose, anzi controproducenti, implicazioni derivanti dalla decisione, volontariamente seguita dall’amministrazione Obama, di mantenere un basso profilo in modo da evitare in qualsiasi modo “fraintendimenti” con Pyongyang (emblematica in questo senso la scelta di rinviare il lancio, da tempo pianificato, di un missile Minuteman 3 dalla Vandenberg AFB).
Quali sono i motivi di questa mia avversione?
Sono tra coloro che ritengono che la politica, tanto quella interna quanto quella estera, sia sotto sotto un gioco delle parti con i suoi riti e rituali talvolta tendenti alla “teatralità”: pertanto non c’è niente di peggio per Kim Jong-un, a prescindere ora dalle motivazioni che l’hanno spinto a questa escalation verbale (volontà di dimostrare la sua leadership al popolo ed ai vertici delle sue forze armate; speranza di ottenere aiuti internazionali facendo leva sul suo deterrente nucleare; desiderio di dimostrare alla Cina la sua indipendenza; spaventare con roboanti proclami l’opinione pubblica mondiale ed i corpi diplomatici stranieri di modo che l’eventuale effettuazione dell’ennesimo test – nucleare o missilistico poco importa – venga accolto quasi con un sospiro di sollievo, etc.), che non riuscire a scatenare una reazione in quello che viene presentato come il nemico. Agli occhi dei militari potrebbe sembrare che il giovane Kim, in fondo, non viene preso sul serio a Washington oppure, ancora peggio, che l’apparato militare nordcoreano non viene considerato una minaccia da parte del Pentagono; cosa che potrebbe in un certo senso costringere davvero Kim a “fare qualcosa” per non perdere la faccia e la legittimazione presso il suo popolo ed i suoi generali.
Meglio dunque avrebbero fatto gli USA a “stare al gioco”, alzando il livello di guardia delle proprie truppe di stanza nel teatro asiatico e rischierando in modo più visibile rispetto a quanto abbiano fatto i propri mezzi (a tal proposito mi immagino la soddisfazione con la quale, a Pyongyang, avranno accolto le immagini delle batterie di Patriot PAC 3 schierate nel cuore di Tokio!).
Così facendo, inoltre, avrebbero trasmesso agli alleati regionali (Corea del Sud e Giappone) il messaggio che gli Stati Uniti sono pronti ad onorare l’impegno alla difesa collettiva; purtroppo temo che a Seoul ed a Tokio la percezione sia stata quella di un alleato titubante, il che potrebbe indurre questi governi ad accelerare il riarmo (già in corso da quelle parti in reazione a quello cinese), valutando a loro volta l’adozione dell’arma atomica (l’idea, alla faccia della non proliferazione, è tornata a circolare nei circoli sudcoreani), rinforzando i partiti nazionalisti, altrettanto a rischio di colpi di testa, ed in ultima analisi destabilizzando ulteriormente l’area.

L’autolesionismo europeo

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Bandiera dell'Unione (EU Flag)

Bandiera dell'Unione (EU Flag) di Giampaolo Squarcina, su Flickr

In una delle sue celebri esternazioni Henry Kissinger definiva l’Europa, a mio avviso giustamente, “un gigante economico, un nano politico e un verme militare”; alla luce degli accadimenti di quest’ultimo biennio una simile affermazione mantiene una sua attinenza con la realtà? Nei tre ambiti in questione (economia, politica, difesa), l’Europa “come sta messa”? Quali sono le prospettive? Procediamo con ordine.

ECONOMIA. Non è questa la sede nella quale dispensare ricette per uscire dalla crisi ma è certo che, prendendo a riferimento l’altra grande fase di depressione economica che ha colpito l’intera economia mondiale (quella degli anni Trenta dello scorso secolo), gran parte delle soluzioni adottate all’epoca si rivelarono inefficaci quando non addirittura dannose. Le politiche (ultra)liberiste inizialmente perseguite portarono ad una riduzione della domanda e di conseguenza alla contrazione dei commerci e di qui ad un ulteriore calo nella produzione industriale (la crisi genera crisi); da questo momento in poi i vari Stati seguirono vie nazionali nel tentativo di uscire dal vicolo cieco in cui si erano infilate: 1) gli Stati Uniti avviarono, con il New Deal roosveltiano di ispirazione keynesiana, una politica di deficit spending con la quale lo Stato si faceva promotore di investimenti infrustrutturali che creavano sì passivo di bilancio ma per l’appunto infrastrutture strategiche e soprattutto posti di lavoro 2) l’Italia fascista, dopo una fase liberista, si votò all’autarchia, nuova variante del classico protezionismo, che alla lunga svuotò le casse ed insterilì il sistema produttivo in termini di capacità di innovazione, produzione e produttività (problema che afflisse l’industria degli armamenti in primis) 3) la Germania nazista, sotto l’abile guida di Hjalmar Schacht, combinò il massiccio intervento pubblico con un sistema di scambi commerciali (soprattutto con l’Unione Sovietica) assimilabile al baratto; purtroppo a beneficiare di questa politica fu la tradizionale industria pesante, necessaria per portare a termine il piano di riarmo deliberatamente ricercato da Hitler (che dal canto suo non ci pensò su due volte di usare le armi così ottenute, precipitando il mondo intero nella Seconda Guerra Mondiale).
Oggi nessuna di queste vie è percorribile o meglio, la prima lo sarebbe, ma essendo le teorie sul rigore dei conti predominanti non se ne fa niente… In queste condizioni il rischio di una lunga fase di recessione / stagnazione è tutt’altro che remoto così come elevate sono le possibilità che si crei un solco sempre più marcato tra un nord Europa virtuoso ed un’Europa mediterranea e balcanica (per inciso la zona geopoliticamente più calda) a rimorchio. L’esito complessivo comunque non cambia e corrisponde ad una notevole perdita d’importanza dell’Europa all’interno del sistema economico globale.

POLITICA. Oggi come una volta l’Europa è del tutto incapace di esprimere un’unica voce politica ed anzi l’allargamento dell’Unione Europea ha comportato una rivisitazione dei processi decisionali che, alla ricerca di un equilibrio di poteri tra UE e stati nazionali, ha reso le istituzioni comunitarie ancora più farraginose. Persino obiettivi facilmente raggiungibili con un minimo di coesione ma dall’alto valore simbolico (come l’ottenimento di un seggio europeo all’ONU) sono stati clamorosamente mancati, cosa incredibile se si pensa che gli equilibri dell’ONU sono quelli del 1945 e sono passati 21 anni dal crollo del comunismo! Tra l’altro la cosa sa anche di beffa perché, se il doveroso “aggiornamento” delle Nazioni Unite fosse stato fatto un decennio fa, l’UE avrebbe decisamente contato di più di quanto conti ora (è sensato che Regno Unito e Francia abbiano un seggio ed India e Brasile no?). Se poi aggiungiamo che: 1) la crisi sta “erodendo” quel poco di solidarietà che esisteva tra Stati 2) non si è individuato un sostrato culturale comune (non occorre essere ferventi neo-guelfi per capire che i riferimenti alla radici cristiane dell’Europa fossero necessari per garantire un collante che trascendesse il mero “mercato”, tanto più considerando che moltissimi stati di recente adesione all’Unione basano la loro identità nazionale sulla funzione storica svolta in qualità di antemurale dell’Impero Ottomano), si evince come dal punto di vista politico stiamo veramente messi male.
Che le cose non vadano per il verso giusto lo capiamo dall’assenza, Mrs. Ashton non me ne voglia, di una politica estera comune: quasi sempre divisi sugli interventi internazionali (emblematica la guerra all’Iraq del 2003, ma non è che nella campagna in Libia del 2011 le cose siano andate molto meglio!), l’UE continua a dimostrarsi del tutto incapace di comprendere le dinamiche di cambiamento in atto nei vari Stati, continuando a prediligere i vecchi interlocutori salvo poi trovarsi completamente spiazzati una volta che il vento del cambiamento soffia (da manuale quanto avvenuto con la cosiddetta “Primavera Araba” e quanto sta tuttora avvenendo in Siria o nel Shael). Purtroppo l’Europa non riesce a trovare una posizione comune nemmeno su dossier ben più “stagionati” per i quali non c’è neppure l’attenuante (che per chi scrive in realtà è un’aggravante) di essere stati colti di sorpresa: sulla questione palestinese o quella iraniana si procede in ordine sparso ed in genere senza offrire soluzioni alternative a quella di Washington. In altri termini l’UE sembra rinunciare ad agire come un soggetto politico autonomo e capace di proprie iniziative e proposte. Le spiegazioni che si possono dare ad un simile atteggiamento sono due ed intimamente correlate: 1) assenza di una politica estera condivisa e definita in termini di interessi, priorità, obiettivi, etc. 2) inesistenza di uno strumento militare comunitario (leggasi: Esercito Europeo), con il quale passiamo all’ultimo capitolo di questa analisi =>

DIFESA. Come ricordato poc’anzi esiste una profonda correlazione tra strumento militare e politica estera con il primo che dovrebbe essere calibrato per rispondere alle minacce alla sicurezza europea, minacce che come noto non sono più esclusivamente da intendere nei termini del classico attacco militare condotto con strumenti di offesa ma che comprendono anche la sicurezza delle linee di comunicazione marittime (il che porta ad includere Atlantico, Mar Mediterraneo con l’Africa settentrionale e subsahariana nonché Oceano Indiano – con sue appendici – e Mar Giallo nelle aree di competenza), i canali di approvvigionamento energetico, la sicurezza delle infrastrutture strategiche (incluse quelle di TLC, con tutti i nuovi scenari della cyberwar) e via di questo passo.
Purtroppo anche in questo caso la crisi ha peggiorato le cose: creare un Esercito Europeo ovviamente costa e l’assenza di adeguati finanziamenti non solo non aiuta (al di là della volontà politica di farlo, ma questo è un altro discorso) ma mette addirittura a rischio la compatibilità con gli standard NATO (che la presenza della NATO abbia disincentivato gli Stati europei dal prendere serie iniziative comunitarie è a mio avviso un dato di fatto, ma questo non deve diventare un alibi) oltre che la perdita di capacità, tecnologiche ed operative, in aree critiche come i sistemi aerei avanzati, i sottomarini, le operazioni in alto mare…
Del resto i tagli di bilancio hanno falcidiato o pesantemente decurtato programmi talvolta vitali, come quello per le fregate FREMM (quando la necessità di controllare gli oceani appare sempre più manifesta; con i pirati, veri o presunti, noi italiani ci siamo scottati per bene!), per lo sviluppo di UAV / UCAV, per l’acquisizione di sottomarini e portaerei ma, cosa ancor più importante, per il rinnovo del parco dei veicoli tattici e da combattimento destinati alle truppe di terra (gli MBT ormai non vengono quasi più considerati…). Il panorama dunque è desolante giacché delle forze armate ci si ricorda solo nel momento del bisogno (vale a dire nei momenti di crisi) e non si capisce come far passare il messaggio che la sanità, l’istruzione, etc. sono sicuramente fondamentali ma che il presidio posto alla democrazia ed alla libertà dalle Forze Armate non è da meno.

Per concludere l’Europa ha perso un decennio fa, sulla scia delle guerre balcaniche e dei relativi interventi di peace enforcement / peace keeping, il treno della costruzione della sua identità di difesa, sia in termini di rappresentanza presso le istituzioni internazionali sia più concretamente di costituzione delle sue strutture operative. Ci si è accontentati dell’economia (introduzione dell’Euro) e l’economia ci ha puniti portandoci in una crisi dalla quale non si sa come uscire e che avrà pesanti strascichi nell’ambito della difesa. La perdita di capacità operative, che bene o male eravamo riusciti a conquistare e mantenere, si allargherà e non riuscirà più a camuffare il peso praticamente nullo dell’Unione Europea.