Irak e Siria, si va verso la regionalizzazione dello scontro?

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Training in Iraq

Training in Iraq di The U.S. Army, su Flickr

Torno, alla luce delle preoccupanti notizie che stanno occupando le prime pagine dei giornali di tutto il mondo, a parlare di Siria ed Irak dopo che sull’argomento, ed in particolare sul ruolo svolto dall’ISIS (o, se preferite, ISIL), avevo già scritto un post ad inizio anno.
In esso qualificavo l’ISIS come un movimento sostanzialmente “straniero” (in particolare sottolineavo come il premier al Maliki manifestasse all’epoca la volontà, per far fronte alla minaccia estremista, di far ricorso a “gruppi locali” che in qualche modo riprendevano la formula dei “Comitati del risveglio” ispirati da una sorta di nazionalismo laico e già utilizzati con esiti positivi dagli Stati Uniti, n.d.r.) e contestualmente ne inserivo l’azione all’interno della duplice lotta tra sciiti e sunniti da una parte e tra petromonarchie e Russia dall’altra.
In altri termini sostenevo che, alla lunga, la tradizione statuale irakena ed il nazionalismo socialisteggiante diffuso, da ultimo, da Saddam Hussein, avrebbero prevalso sulle spinte disgregatrici motivate da divisioni religiose ed appetiti economici.
Gli ultimi eventi sembrano indicare, al contrario, che le dinamiche dell’area hanno preso una piega diversa da quella allora ipotizzata: in particolare il tentativo del premier al Maliki di attivare gruppi nazionalisti locali sembra essere naufragato miserabilmente (anzi, la grande accusa che molti muovono al premier è proprio quella di avervi rinunciato del tutto, schierando truppe sciite nelle regioni sunnite, con le prime che avrebbero agito con modi da esercito di occupazione tali da suscitare l’odio della popolazione), al punto che si è verificata una saldatura sulla carta difficilmente preventivabile tra ribelli locali (sunniti nazionalisti) ed esteri (gli integralisti dell’ISIS).
Ecco perché la figlia di Saddam Hussein, Raghad, può gioire alla notizia della travolgente avanzata dell’ISIS, affermando che a capo ci sono “gli uomini di [suo] padre”: in effetti tra gli artefici delle recenti vittorie vi è il generale Izzat al Douri, che del defunto regime era figura di primissimo piano (la figlia è stata anche brevemente sposata con Uday Hussein, figlio maggiore di Saddam).
Le ripercussioni, alcune già sotto i nostri occhi, rischiano di essere deleterie per l’Irak e per l’intera regione. L’avanzata dei ribelli nel nord e nel centro del paese, facilitata dallo sfaldamento dell’esercito irakeno, da una parta rischia di dare il colpo di grazia a quel poco di potere centrale che era rimasto mentre dall’altra la decisione del premier sciita al Maliki di richiedere in proprio aiuto l’intervento di milizie “amiche” legate ai pasdaran (circa 2mila miliziani sarebbero già entrate, n.d.r.) potrebbe far prendere in maniera definitiva una piega confessionale agli scontri che oramai dal 2003 affliggono il “paese tra i due fiumi” con l’aggravante di una dimensione sovraregionale.
In Irak si sta infatti replicando lo schema a suo tempo adottato in Siria, con Teheran che interviene con uomini ed armi a puntellare un governo amico. Ma se in Siria il risultato principale, piuttosto che i successi sul campo, è stato quello di riuscire a restituire un ruolo di interlocutore politico legittimato al presidente Assad (favoriti nel compito dalle nefandezze delle quali si sono macchiati gli estremisti islamici, tali da renderli impresentabili alle cancellerie occidentali), in Irak le cose sono un più complicate e la partita decisamente più importante. Non è solo una questione di petrolio (anche se quest’ultimo ha il suo peso): il rilievo strategico dell’Irak negli equilibri complessivi nell’area del Golfo Persico e dell’intero Medio Oriente è indubbiamente superiore rispetto a quello della piccola Siria e gli ultimi eventi fanno per l’appunto temere che la carta geografica della regione vada ben presto ridisegnata.
Infatti la caratterizzazione confessionale del conflitto rischia, come sopra prefigurato, di portare all’implosione dello Stato con un nord curdo (de facto già indipendente e peraltro protagonista di uno spettacolare boom economico), un centro sunnita ed un sud sciita legato a doppio filo con Teheran.
Tale tripartizione, lungi dal ridare un nuovo assetto pacifico all’area, a mio parere potrebbe avere gravi effetti destabilizzanti; in particolare l’esistenza di uno Stato curdo riconosciuto a livello internazionale potrebbe ravvivare le istanze indipendentiste nel Kurdistan turco ed iraniano.
Similmente la presenza di un cuore “sunnita” esteso pure su parte della Siria (bisognerà vedere su quali basi poggia l’alleanza tra “stranieri” dell’ISIS e sunniti – baathisti; personalmente non escludo che, come già accaduto in Siria, anche qui le opposizioni possano entrare in lotta tra di loro) potrebbe veramente portare alla nascita di un emirato islamico, un hub del terrore che, anche alla luce delle ingenti risorse petrolifere sulle quali potrebbe contare (nonché sulla sua proiezione mediterranea), rappresenterebbe una minaccia mortale per gli alleati regionali dell’Iran (Libano e quel che resta della Siria alauita) nonché un autentico spauracchio per l’intero Occidente.
Ovviamente le cose potrebbero andare diversamente da quanto qui paventato; quel che è certo è il totale fallimento della politica estera di Washington dell’ultimo decennio. Lungi dall’aver stabilizzato l’area e dell’aver fatto dell’Iraq il suo pivot regionale, si è dato l’avvio ad un processo di disgregazione non ancora ultimato. Non solo le politiche di nation building ma anche quelle di ricostruzione delle infrastrutture (ricordate i PRT?) e dell’esercito sono miseramente fallite. In questo vuoto assoluto è difficile sperare che gli avvenimenti prendano una piega favorevole per gli interessi occidentali, tanto più considerando che le cancellerie occidentali (amministrazione Obama in primis) difficilmente si lasceranno trascinare nel caos che esse stesse hanno contribuito a creare.

L’ISIS in Siria ed Iraq: qual è la posta in gioco reale?

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Iraq_Tribes_Map

Iraq Tribes Map di Safety Neal, su Flickr

La lotta tra fazioni ribelli che si sta verificando in Siria ed in Iraq, con l’ascesa operativa e soprattutto mediatica dell’ISIS (Islamic State in Iraq and Syria), merita un approfondimento, tanto più che le notizie in circolazione sono confuse e talvolta contraddittorie. In effetti va preliminarmente riconosciuto che la probabile presenza di fazioni doppio – triplogiochiste rende difficile un’analisi completamente attendibile di quello che sta avvenendo sul campo.
I dati di fatto dai quali partire sono sostanzialmente due: l’ISIS (organizzazione il cui fine, come ben chiarisce il nome, è la creazione di uno stato islamico basato su una rigida applicazione della legge islamica sui territori degli attuali Siria ed Iraq) ha avviato in Siria una sistematica serie di attacchi nei confronti degli altri gruppi in lotta contro il regime di Assad (con il fine apparente di presentarsi come principale forza di opposizione), scatenando la reazione violenta (non poteva essere diversamente, dato il contesto) delle altre milizie; pressoché contemporaneamente una simile strategia offensiva è stata applicata in Iraq contro il governo “sciita” (ed in quanto tale accusato di essere filo-iraniano) del premier al Maliki, arrivando a far sventolare “la bandiera nera di al Qaeda” su Falluja (questa l’immagine prevalentemente passata sui media mainstream occidentali), città simbolo della resistenza irakena per le due aspre battaglie ingaggiate contro le truppe statunitensi (e della coalizione) nel 2004.
Fin qui i fatti. Dopo ci sono le voci e le “confidenze” le quali, si badi, nei torbidi delle guerre civili potrebbero pure contenere un fondo di verità. Quelle milizie impegnate in Siria che hanno deciso di non piegarsi alla volontà di sopraffazione dell’ISIS (altre infatti stanno ricercando una mediazione nel tentativo di salvare l’unità del fronte anti Assad), hanno denunciato pubblicamente le violenze perpetrate ai danni della popolazione civile accusando l’ISIS stessa di essere, in realtà, manovrata da Assad il quale, dal canto suo, ha così buon gioco a dimostrare come in Siria siano operativi “terroristi stranieri” e come siano costoro i (principali) responsabili degli eccidi.
Questa lettura del teatro siriano, e del presunto ruolo pro Assad (un alauita, ergo vicino alle posizioni religiose sciite) in esso svolto dall’ISIS, purtroppo non collima con quello che avviene nel vicino Iraq dove l’ISIS, al contrario, combatte per abbattere il governo dello sciita al Maliki.
Vi è, evidentemente, una contraddizione di fondo. Un particolare però può fornire una utile chiave di lettura di quanto sta avvenendo: al fine di non avallare (ancor più di quanto già si sappia) la teoria della lotta tra sciiti e sunniti, al Maliki non sta schierando contro le milizie dell’ISIS l’esercito regolare bensì formazioni locali che hanno deciso di collaborare con il governo di Baghdad. Poiché gli appartenenti a tali formazioni provengono dalle tribù locali e poiché Falluja rappresenta uno dei tre vertici di quel famoso “triangolo sunnita” (assieme a Bakuba e Ramadi) che tanto filo da torcere diede alle truppe statunitensi, vien da pensare che oggi come allora siamo di fronte ad una manifestazione di nazionalismo “genuino” di fronte ad elementi esterni che, per quanto della medesima confessione, hanno obiettivi diversi da quello che potremmo definire il “vero bene” dell’Iraq. In questo senso la prova ex contro potrebbe essere rappresentata proprio dal fatto che le tribù sunnite del triangolo, ovvero quelle più legate al partito socialisteggiante Ba’th del defunto Saddam Hussein e pertanto più intrise della nozione Occidentale di Stato, abbiano messo da parte le differenze confessionali per combattere a fianco del governo centrale “sciita”.
Ovviamente si tratta di una tesi accademica “da tavolino” che per essere pienamente confermata necessiterebbe di una verifica “sul campo”, tanto più che solo ipotesi si possono formulare sulle stesse “potenze straniere” che starebbero dietro all’ISIS così come su analoghe formazioni spuntate negli ultimi tempi. I rumor più accreditati guardano alle petromonarchie del Golfo e, carta geografica alla mano, il sospetto sembra più che fondato: qualora Siria ed Iraq dovessero finire nell’orbita sunnita, gli stati della penisola arabica otterrebbero il duplice vantaggio di “spezzare” da un lato la mezzaluna sciita che dall’Iran si protende (attraverso l’Iraq, la Siria ed il Libano) fino al Mediterraneo e dall’altro di mettere al sicuro le pipeline dirette verso l’Europa occidentale, laddove al contrario un’affermazione delle forze sciite frammenterebbe il fronte sunnita con la penisola arabica da una parte, l’Africa settentrionale dall’altra e Turchia e Caucaso da un’altra ancora.
Riprova del fatto che non si tratti di un’ipotesi campata per aria l’atteggiamento della Russia (protettrice, oltre che di Damasco, anche di Teheran): la strenua difesa del regime di Assad così come il pugno di ferro tenuto nei confronti degli estremismi / indipendentismi caucasici (che guarda caso altre indiscrezioni sostengono essere foraggiati dalle solite monarchie del Golfo), ovvero proprio di quei paesi chiave per il passaggio delle condotte di gas e petrolio, inducono a ritenere che la complessa partita geo-energetica Russia VS Paesi del Golfo faccia da sfondo alle complesse vicende di politica estera mediorientale degli ultimi anni.