La solitudine dell’Europa

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Gone with the wind...

Gone with the wind..., su Flickr di Theophilos Papadopoulos

A quasi una settimana dagli attentati di Bruxelles, nonostante l’orgia di articoli, commenti ed analisi prodotti e messi in circolazione, mi pare che un aspetto non sia stato sufficientemente evidenziato ed è quello che io definirei “la solitudine dell’Europa”: solitudine di fronte alle sfide del terrorismo islamista ma anche, e soprattutto, dal punto di vista dell’aiuto da parte degli altri attori della politica internazionale ed in particolar modo degli Stati Uniti.
Difatti, al di là delle canoniche dichiarazioni di solidarietà e di vicinanza per le vittime, è innegabile che a Washington (del resto coerentemente con la politica estera di questi ultimi otto anni e tanto più ora che il mandato obamiano volge al termine e la sfida per le presidenziali si infiamma) siano tutto fuorché propensi a farsi coinvolgere in prima persona nelle beghe mediorientali.

Si tratta, a ben vedere, di un autentico capovolgimento rispetto a tre lustri fa: se 15 anni fa, con gli attacchi dell’11 Settembre 2001, erano gli Stati Uniti, in quanto Grande Satana, a rappresentare l’obiettivo principale dei gruppi terroristici di ispirazione islamica e, conseguentemente, a richiedere l’aiuto dell’Europa (a proposito, vi ricordate la divisione tra “cattiva” old Europe e “buona” new Europe?) e della NATO, oggi è il Vecchio Continente ad essere divenuto il bersaglio favorito e a risultare incapace di organizzare, orfano dell’ombrello statunitense, una ancorché minima reazione coordinata. Ad essere indicativo di questo dato di fatto è il numero estremamente limitato di attentati di matrice islamica avvenuti sul suolo statunitense dal 2001 ai giorni nostri in confronto con quelli condotti in Europa: se negli Stati Uniti si sono verificati appena tre attacchi (vale a dire il massacro di Fort Hood del 2009, le bombe alla maratona di Boston del 2013 e la strage di San Bernardino del 2015) in Europa occidentale, solo per citare i più eclatanti, vanno ricordati quelli di Madrid (2004), Londra (2005), Parigi (gennaio e novembre 2015) e Bruxelles (2016). Certo, si può giustamente obiettare come gli Stati Uniti abbiano protetto il proprio territorio mandando i propri soldati all’estero, e pagando il relativo tributo di sangue, ma considerazioni analoghe possono essere fatte per gran parte degli Stati europei, le cui forze armate sono state impiegate in Afghanistan, Iraq, Corno d’Africa, Libia, Mali, etc ed i cui cittadini, peraltro, sono stati l’obiettivo principale dei non meno numerosi attentati verificatesi nel medesimo lasso di tempo in Egitto, Tunisia, Mali, Costa d’Avorio, etc.

A queste semplici considerazioni quantitative ne vanno poi aggiunte altre, ben più importanti, di natura qualitativa: gli attentati occorsi negli Stati Uniti sono avvenuti per mano di singoli individui o comunque da parte di persone legate da vincoli affettivi / di parentela (un aspetto comunque presente anche in Europa) ma sprovvisti della rete logistica, delle connivenze e delle protezioni sulle quali possono invece fare affidamento i terroristi attivi nel Vecchio Continente; inoltre mentre nel caso americano siamo in presenza di legami con l’estremismo islamico stretti perlopiù via Internet (strumento di proselitismo), gli jihadisti europei sono stati spesso e volentieri forgiati nelle “palestre” afghane, irakene e da ultimo siriane.

Anche in questo sta la solitudine dell’Europa: tanto gli Stati Uniti, grazie anche alla protezione offerta dalla geografia, sono riusciti ad impedire di essere infiltrati dai network jihadisti, tanto l’Europa si è trovata “con il nemico in casa”, allevato tra i giovani figli di immigrati di seconda od addirittura terza generazione (senza considerare i casi di convertiti).
Un nemico, dunque, difficile da individuare e contro il quale non sono sufficienti (per quanto comunque necessarie) le misure invocate in questi giorni, quali ad esempio l’armonizzazione delle intelligence nazionali (con una vera condivisione delle informazioni), la costituzione di un esercito europeo (strumento però perfettamente inutile, si badi, fintantoché non verrà elaborata una vera politica estera europea!) e la difesa delle frontiere esterne dell’Unione.

Se consideriamo poi come la minaccia terroristica si concretizza in un contesto caratterizzato da un’economia ancora in affanno nonostante i tassi d’interesse negativi, un’emergenza immigrazione che ha indotto alla sospensione di Schengen, con il referendum britannico alle porte (e che, qualora il sì dovesse risultare vincitore, potrebbe aprire un’ulteriore breccia nella solidità dell’edificio europeo), appare evidente come la sfida che si para innanzi sia davvero titanica.

In questo senso, la consapevolezza da un lato che gli Stati Uniti, chiunque sia il prossimo inquilino della Casa Bianca, oramai guardano altrove (teatro Asia – Pacifico) e che dunque non ci si deve aspettare grandi aiuti, e dall’altro la certezza che il vecchio Continente sarà bersaglio privilegiato dell’estremismo islamista per motivi che sono insieme storico-religiosi (la secolare lotta tra Califfato ed il cuore del cristianesimo), ideologici ed operativi (la presenza di una consistente comunità islamica e di una rete logistica ed operativa) non lascia molto spazio all’ottimismo: come si ripete da anni il radicalismo islamista va combattuto, oltre che militarmente, aggredendone le radici di ordine culturale e socio-economico, il che richiede evidentemente tempi lunghi per vedere i primi effetti. Purtroppo sono già trascorsi 15 anni dall’11 settembre e poco o nulla è stato fatto su questo fronte e l’Europa, di tempo, ne ha sempre meno.

Operazione Mare Nostrum, alcune riflessioni

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Fregata Maestrale

Fregata Maestrale (rielaborazione foto di Roberto Ferrari, su Flickr)

Lo scandalo Datagate ha, per comprensibili motivi, messo in subbuglio gran parte delle cancellerie Occidentali ed occupato la recente scena politico-mediatica, facendo scivolare in secondo piano l’annosa questione dell’immigrazione clandestina attraverso il Canale di Sicilia. Passato infatti il momento del lutto e del dolore, derivante dall’ennesima tragedia del mare, tutto è tornato più o meno come prima, con l’Italia di fatto abbandonata a gestire da sola l’inesauribile flusso di migranti e l’Europa, meta ultima di questi disperati, a guardare.
Scrivo “più o meno” perché, a seguito degli ultimi avvenimenti, il Governo Letta ha deciso di cambiare approccio, quanto meno in termini di visibilità.
Mi riferisco naturalmente all’Operazione Mare Nostrum, la quale prevede un cospicuo dispiegamento aeronavale (il cui fulcro è costituito da una LPD, 1-2 fregate, 1-2 pattugliatori ai quali si aggiungono elicotteri, droni ed aerei da pattugliamento / sorveglianza); purtroppo, come rilevato da commentatori ben più autorevoli del sottoscritto, se l’obiettivo della missione è quello di bloccare gli sbarchi (diverso invece il caso se lo scopo è quello di evitare altre vittime; n.d.r.) il fallimento è praticamente assicurato. Posto che la via militare va ad agire sugli effetti piuttosto che sulle cause, le quali come noto sono di natura politica e socio-economica e pertanto risolvibili ricorrendo a strumenti diversi, nel caso specifico è evidente che la presenza in mare di una flotta che, di fronte ad una situazione di emergenza, non potrà esimersi dal SALVARE i migranti, non avrà altro effetto che incentivare gli scafisti a compiere i loro viaggi!
In verità, viene suggerito nell’articolo testé citato, la presenza nel dispositivo predisposto di asset quali le fregate lanciamissili e nuclei di fucilieri di Marina con relativi mezzi da sbarco, suggerisce che missioni più “muscolari” non vadano, al di là della retorica politica, escluse a priori.
Su questo specifico aspetto ritengo sia opportuna un’ulteriore riflessione: in primo luogo è evidente che eventuali azioni volte ad impedire sul nascere le partenze dalle coste libiche (ma talvolta i migranti partono da ben più lontano, vedasi l’Egitto) non possono che avere risultati estemporanei e di valore soprattutto simbolico. E’ a mio avviso infatti imprescindibile un controllo permanente di quei tratti di costa dai quali originano le partenze: il modello di riferimento è la dodecennale presenza (1997-2009) nei principali porti albanesi, Durazzo e Valona, nonché sullo strategico isolotto di Saseno, di uomini e mezzi della Marina Militare / Guardia Costiera. Tale dispiegamento ha reso possibile, complice beninteso anche l’apertura di nuove vie (come quella di Trieste) e la contestuale stabilizzazione dei Balcani meridionali, un drastico calo nei traffici di uomini, droga, sigarette ed armi verso le coste pugliesi e calabresi.
Non meno importante, al fine di garantire il successo all’eventuale ridispiegamento avanzato, è trovare un qualche appoggio locale: purtroppo in questo caso la situazione libica, divisa tra fazioni secondo logiche ideologico-tribali e con uno potere centrale in progressivo disfacimento (emblematico il caso del Primo Ministro Zeidan, vittima di un sequestro lampo da parte di quelle stesse milizie che dovrebbero proteggerlo) non lascia ben sperare né pare ipotizzabile addivenire ad accordi, nemmeno sottobanco, con qualcuna delle fazioni in campo: il rischio di doppi giochi e di scottanti fregature è elevatissimo.
Se dalla sponda africana non è dunque ipotizzabile ricevere collaborazioni degne di nota, sarebbe già un successo riuscire a coinvolgere alcuni partner europei: ottenere un supporto dagli stati nordici è evidentemente troppo, ma da quelli che condividono il teatro Mediterraneo forse qualche forma di aiuto / coordinazione degli sforzi sarebbe lecito attendersi! In particolare da Malta, tradizionale perno di questo mare e presso la quale da quarant’anni a questa parte abbiamo in essere una missione militare dovremmo pretendere qualcosa che vada oltre al classico gioco dello scaricabarile!
Insomma, lo strumento militare, per essere risolutiva come spesso accade deve essere accompagnata da azioni agenti sui più diversi livelli.